Sandro Luce
Volume 15, 2024
Come si fa in queste circostanze presento brevemente Alberto Moreiras che ha insegnato alla Duke University e attualmente insegna presso la Texas A&M University ed è autore di numerosi saggi, tra i quali ricordo The Exhaustion of Difference. The Politics of Latin American Cultural Studies (2001) Tercer Espacio: Literatura y duelo en América Latina (2006); Línea de sombra El no sujeto de lo político (2006); Marranismo e inscripción, o El abandono de la conciencia desdicha, fino all’ultimissimo Infrapolitica. Instrucciones de uso, che è una utilissima integrazione al libro che andiamo a presentare edito dalla casa editrice, Editori Paparo.
Ho citato solo alcuni lavori – e la lista sarebbe lunga – che, dal mio punto di vista, costituiscono un importante cornice teorica del libro che andiamo qui a presentare, il quale – al di là della relativa brevità del testo – risulta estremamente denso e ricco di sollecitazioni da un punto di vista teorico e politico.
Si tratta di un libro, dunque, che si pone dunque nel solco di un percorso di ricerca che è stato costantemente caratterizzato da un lavoro di scavo e di destituzione di ogni fondamento non solo di ciò tradizionalmente viene considerata e definita politica, ma anche della soggettività moderna Destituzione che non è da intendersi in senso negativo o distruttivo, piuttosto come un’apertura, come una dischiusura di ciò che la tradizione (non solo filosofica) ha rinchiuso all’interno di specifici perimetri di significazione, a partire da ciò che si intende per politica, ossia al senso che viene comunemente riferito alla politica nella sua moderna configurazione democratico-rappresentativa Una ‘forma’ e una ‘formula’ della politica che da anni è oramai in chiara ed evidente crisi. Una crisi che è inscindibile dalla crisi del soggetto moderno esplosa di fronte all’emersione di una molteplicità di particolarità, di differenze che non sono riassumibili nella grammatica del soggetto ‘classico’ della Modernità.
È proprio questo aspetto ad essere rimosso in quelle proposte che puntano alla riattivazione del “popolo”, nel senso di un recupero del Politico “democratico” – alla Mouffe o alla Lacalu – (che procede raccogliendo e coagulando sotto un significante egemonico, domande sociali differenti, domande che vengono rese intercambiabili ed equivalenti.
Un tentativo questo – che, preciso, è all’opposto del progetto teorico di Alberto – che vuole rilanciare esattamente quel plus di politicità ormai evanescente, antagonizzando – o meglio agonizzando – con quei processi di economicizzazione della sfera del politico indotti dalla governamentalità neoliberale che è stata invece in grado di rispondere alla moltiplicazione delle differenze, esaltandone le potenze singolari e la loro autorealizzazione.
Insomma, il capitalismo (nella sua versione neoliberale) si è perfettamente adeguato ad un ’epoca in cui la coesistenza tra viventi non è garantita da alcun principio trascendente (teologico, politico, ideologico) in grado di produrre una normatività sociale, un ordine, riuscendo invece a mettere a valore la produttività dell’immanenza attraverso una potente istanza di autogoverno delle differenti singolarità, secondo una logica ‘economica’ che organizza l’intero campo sociale e che incide inevitabilmente sui processi di identificazione: che non si realizzano più (o si realizzano sempre meno) attraverso la sublimazione in un valore o legge comune, ma sono lasciati ad una competizione contingente e orizzontale, che non passa attraverso alcuna trasformazione dialettica.
Rispetto a questa mia breve introduzione su quella che considero l’odierna logica governamentale neoliberale, Alberto – seguendo l’interpretazione di Jorge Aleman – riprende il discorso lacaniano del Capitalista, per sottolineare come nel momento in cui assecondiamo la legge del Super-io, siamo costretti – cito da p. 38 – a “rinunciare al nostro piacere per alimentare quell’istanza che trova piacere nella rinuncia stessa”.
Si tratta di una lettura che non asseconda la tendenza a considerare l’odierna razionalità governamentale neoliberale come una macchina della joiussance – ossia come una macchina che induce – potremmo dire ingiunge – un godimento illimitato, favorendo una soggettivazione di tipo narcisistico. Una macchina che ha completamente disarticolato il meccanismo edipico novecentesco – quello fondato sull’interdizione del desiderio e sulla castrazione simbolica ossia quei meccanismi che strutturavano il soggetto (moderno) attraverso la sua sublimazione in valori e identità che lo trascendevano.
Viene invece sottolineato il persistere di un elemento interdittivo: la spinta al godimento, è sempre accompagnato da un ‘non puoi’, da un no, cosa che conduce non tanto alla nevrotizzazione del soggetto (per mancanza di godimento), quanto ad un godimento che deriva da questo intreccio tra spinta libidica al godimento e pulsione di morte (che si concretizza nella coazione a ripetere il consumo dell’oggetto). In altre parole, l’odierno discorso del Capitalista (che Aleman assimila al concetto heideggeriano di tecnica) cattura non solo le differenze che evocavo in precedenza, con le quali intendevo altre forme concrete possibili di soggettivazioni.
Il discorso del Capitalista cattura – ci dice Moreiras – la differenza assoluta tra vita e politica, che costituisce la controparte della “razionalità” propria del discorso del capitalista, in quanto espressione di un ‘altro godimento’, di un godimento esistenziale che invece non è (o non sarebbe) controllato dal super-io: una sorta di “resto” , eccedenza, nel senso che eccede, si pone fuori dalla logica circolare tra spinta libidica/pulsione di morte, senza rimanere schiacciata sulla vita, ossia sul bios inteso come pura datità Ciò che va recuperato, secondo Alberto, è proprio questa differenza assoluta tra vita e politica che costituisce il punto di partenza per la costruzione di un progetto infrapolitico che si pone come compito quello di chiarire questa regione esistenziale. Su questo punto conto di tornare per alcune considerazioni.
È chiaro che questa disgiunzione (tra vita e politica) costituisce una presa di distanza dal paradigma biopolitico e da tutte le sue versioni – da quella affermativa dell’impersonale alla Roberto Esposito (al quale è dedicata un’ampia discussione critica sulla quale non mi soffermo) alla versione destituente e tanatologica à la Agamben.
Sebbene Alberto ne condivida buona parte dei presupposti – il rifiuto della prospettiva teologico-politica e di qualsiasi ipotesi trascendentale, la continua problematizzazione del presente, etc, – tuttavia per Moreiras la possibilità di aprire una riflessione teorica su questo ‘resto’ (o ‘eccedenza’) (la differenza assoluta tra vita e politica) deriva da un inaggirabile slittamento dalla vita all’esistenza, più precisamente verso una ‘fatticità dell’esistenza’ che Moreiras definisce come “il modo umano di relazionarsi con la vita” (44).
Non si tratta però di proporre un’indagine sulle forme di esperienza interiore, piuttosto va indagato il rapporto tra pensiero ed esistenza tanto nella sua dimensione costitutiva ed inevitabile per ogni vivente – ciò che Moreiras chiama infrapolitica fattuale – quanto nella sua dimensione imperativa – l’infrapolitica riflessiva – che implica l’accettazione per il vivente della sua condizione di esistenza. Potremmo dire una dimensione nella quale la fattualità dell’esistenza viene abitata in modo consapevole.
È chiaro che la tematizzazione dell’esistenza, rimetta in moto tutta la questione della differenza ontico-ontologico e, più in generale, la tematica heideggeriana sul destino onto-teologico dell’Occidente e dell’identificazione tra essere e pensiero rispetto al quale solo facendo un passo indietro è possibile introdurre una mobilitazione destabilizzante.
Il “passo indietro” non è quello che ci riporta al tempo in cui il pensiero occidentale cominciò a individuarsi e a separarsi da quello aurorale (il “primo inizio”).
Il “passo indietro” è quello che fa emergere quell’‘eccedenza’ che abita la nostra esistenza fattuale, dove il semplice vivere appare solo come l’altra faccia del differimento ontologico al quale viene convocato il Dasein e che necessita di quell’accettazione consapevole (che eccede l’essere), grazie al quale è possibile trovare la nostra distanza dalla politica e l’apertura di spazi di libertà.
Tutto questo discorso fa emergere un concetto di esistenza che vuole indicarci una dimensione che non può essere oggettivata, che sfugge a qualsiasi operazione che risponda a una ragione calcolatrice. La condizione dell’ex-sistere – nel senso etimologico dello ‘stare fuori’, e dunque, dell’essere esposta al ‘poter essere’ che essa è – è proprio ciò che ci riporta a qualcosa che supera lo spazio della politica. È come se l’infrapolitica volesse aderire alla fattualità dell’esistenza, ma scavando un percorso verso una sorta di esteriorità un “fuori”.
È in questa direzione che vengono riprese alcune riletture heideggeriane – come quelle di Sheenan e di Derrida – funzionali a chiarire lo statuto teorico dell’infrapolitica e ciò che si può intendere per esistenza. O come nel caso del richiamo alla ‘decisione di esistenza’ di Nancy, che mi sembra particolarmente esplicativa della cesura tra ‘reale’ e ‘pensiero’ nella quale si insinua l’infrapolitica. La decisione di esistenza è ciò che permette all’esistente di rimanere sempre nella modalità della possibilità ove la possibilità non indica una scelta tra opzioni predefinite, piuttosto esplicita il legame tra decisione e apertura come modalità d’essere del Dasein, che è ciò che Moreiras chiama – in opposizione alla decisione propriamente politica (quella “soggettiva, metafisica e identitaria”) – decisione infrapolitica’ nella quale – cito da p. 51 – “l’esistente sutura o vincola la sua relazione con l’esistenza”: questa adesione all’esistenza è la decisione (o ‘incidente incospicuo’) che proietta con gioia – ovvero “l’affetto infrapolitico primario” – il soggetto oltre i modi della sua esistenza: non in un altro luogo, non in una trascendenza, ma in un’apertura verso un ‘fuori’.
L’esistenza viene presentata come un’eccedenza rispetto alla politica, come qualcosa che – a differenza della vita – impedisce una sua traduzione integrale nel campo della politica. Proprio la mancata corrispondenza tra campo politico e campo della soggettività costituisce la condizione stessa di possibilità dell’infrapolitica, motivo per il quale il soggetto non è mai l’orizzonte finale della politica.
È chiaro che quando Moreiras parla di soggetto non pensa solo a quello della Modernità, ma fa anche riferimento – seppure sottotraccia e in maniera meno esplicita – alle soggettivazioni o ‘processi di soggettivazione’ (assujettissement) in senso foucaultiano. Soggettivazione che sono sempre pensate ‘internamente’ sul campo di immanenza nel quale agisce la razionalità neoliberale, producendo resistenze e contro -effetti, linea di rottura senza alcuna ipostasi trascendente.
Questa posizione è – dal mio punto di vista – problematica soprattutto se per un attimo ritorniamo alla razionalità governamentale neoliberale che lavora esattamente in direzione opposta all’artificio della politica moderna che, attraverso la trascendenza sovrana, sussumeva gli individui all’interno di un canone unico (con tutti gli annessi effetti di inclusione, ma anche e soprattutto di esclusione).
La governamentalità neoliberale dall’unità (presunta) produce differenze e le rinaturalizza: questo è un dettaglio decisivo perché non è una presa di distanza da una natura che va conformata a una Legge; l’azione governamentale neoliberale serve proprio a riprodurre esattamente la stessa situazione di conflitto diffuso – lo stato di natura hobbesiano – trasfigurato però una competizione generalizzata tra singolarità.
Singolarità che non sono sussunte sotto un nòmos che le trascende: a condurle, è una norma immanente la loro vita, che viene sempre giocata sul doppio binario della sopravvivenza – basti pensare a quanto sta accadendo con il Covid – e del suo potenziamento – si pensi a tutti i riverberi delle teorie del capitale umano (Jacob Mincer, Gary Becker Schultz) sulla condizione odierna soprattutto dei giovani e del loro processo formativo. Mira cioè non solo alla componente meramente biologica, alla nuda vita, ma anche alla fatticità dei comportamenti, ai modi di fare, alle condotte.
Insomma, la vita – almeno da una prospettiva foucaultiana – assume un’ampiezza semantica in grado di ricomprendere non solo l’uomo in quanto vivente, ma anche il campo molto più ampio e mutevole dell’essere desiderante.
Da questa prospettiva ritorna prepotentemente in campo il discorso sulle soggettivazioni e sulla possibilità trovare spazi di libertà attraverso pratiche che possono tradursi in contro-condotte, in azioni resistenza, in forme di dissidenza.
Insomma, Moreiras sebbene elabori una teoria per ‘guardare’ l’immanenza, sceglie invece di ignorare i processi concreti di soggettivazione attraverso i quali le vite desideranti possono essere si assoggettate, ma possono anche contrapporsi, resistere, rompere con i dispositivi governamentali.
Soggettivazioni che possono, quindi, sfuggire al potere, non proiettandosi all’esterno, nell’esistenza (intesa come un’apertura verso una fattualità abitata consapevolmente), ma implementando nuovi modi di vivere, nuovi stili di vita, che vanno a costituire in maniera sempre instabile e contingente quella che potremmo chiamare “politica dei governati” che, forse, (ed è questa una domanda per Alberto) è quello che l’infrapolitica sceglie di non vedere.