Roberto Esposito
Il primo pensiero che mi viene, presentando ‘Infrapolitica’ di Alberto Moreiras, insieme a Giacomo Marramao e Davide Tarizzo, è quello dell’amicizia. Benché non veda Alberto da tanto tempo – forse l’ultima volta l’ho visto a Roma, proprio insieme a Giacomo –, ho sempre avvertito nei suoi confronti una sorta di empatia. Insomma, oltre ad essere un importante interlocutore filosofico, Alberto per me è soprattutto un amico.
Ricordo ancora un volo, non esattamente piacevole, in una tempesta di neve, tra New-York e Buffalo, dove Alberto aveva organizzato un convegno sul pensiero italiano. Il viaggio non fu facile, ma, appena arrivati a Buffalo, fummo tutti avvolti dalla sua simpatia e generosità. Oltre a risultare significativo per le cose dette – ricordo in particolare la relazione di Bruno Bosteels cui Moreiras rimanda anche nel libro –, il convegno si svolse in un’atmosfera particolarmente distesa e amichevole.
Poi, se non ricordo male, ci siamo incontrati di nuovo a Ithaca, a Cornell, insieme a Tim Campbell, in un’occasione analoga, anche in questo caso dedicata al pensiero italiano. Ricordo questi antecedenti per dire che il colloquio di oggi sul suo libro e la sua prospettiva non ha il sapore di un impegno accademico o di un confronto soltanto teorico, ma il senso di un’amicizia ritrovata.
Venendo a Infrapolitica, devo dire che ho apprezzato molto l’introduzione di Sandro Luce, che ha svolto il compito, non semplice, di presentare al pubblico italiano una posizione filosofica – quella appunto di Alberto – che egli stesso dichiara sfuggente a ogni definizione e perfino alla possibilità di essere messa in parola.
Ebbene, nonostante ciò, mi pare che Sandro entri nel suo dispositivo teoretico molto bene. In realtà, quello che Alberto intende dire, quando afferma che della propria prospettiva non è possibile parlare da parte degli esperti, è che essa, per la sua stessa natura complessa, si sottrae a ogni riduzione, non rientra in categorie o paradigmi già costituiti, esibisce una singolarità, e anche una originalità, che vanno rispettate in quanto tali.
Ma, per penetrare nel suo dispositivo filosofico, non privo di risonanze letterarie – personalmente, avendo insegnato a lungo letteratura italiana, non conferisco all’aggettivo ‘letterario’ nessun significato riduttivo – è necessario inquadrarlo, come fa appunto Sandro Luce, in un orizzonte biografico e culturale più ampio, che dà ragione anche dei passaggi ulteriori, di cui Infrapolitica costituisce l’esito ultimo.
Nonostante il proclamato passo indietro nei confronti della politica, in realtà, Alberto ha fatto e ancora fa una rilevante politica accademica, con un’innata capacità strategica. Non solo, ma ben conosce il conflitto politico-culturale di cui, da quando insegnava a Duke, è stato al contempo soggetto e oggetto all’interno di un settore particolarmente importante, ma anche complesso, come quello degli studi latino-americani.
Come è noto, all’interno di questo settore, Moreiras ha avuto un ruolo di primo piano, rappresentandone l’ala più radicale, nei confronti di altre posizioni teorico-politiche con cui ha spesso polemizzato. In particolare si è energicamente opposto alla tendenza a ricostruire un nuovo spazio identitario di ambito latino-americano, non molto diverso da quello, eurocentrico ed egemonico, da cui si volevano prendere le distanze.
In particolare in Marranismo e inscripcion Moreiras esprime una posizione critica molto chiara nei confronti di un certo modo di interpretare gli studi culturali nelle aree subalterne che resta all’interno del canone egemone, finendo per ricostituirne una forma identitaria.
Contro questa tendenza, presente negli studi latino-americani, a riprodurre la vecchia macchina rappresentativa della tradizione filosofica occidentale, limitandosi a cambiarne il soggetto, Moreiras propone il passaggio dal paradigma di ‘post-coloniale’ a un paradigma ‘de-coloniale’, capace di decostruire non solo la cultura egemone, ma anche quella subalterna – non solo il ‘sé’, ma anche l’Altro, come unico modo di bloccare la macchina rappresentativa fondata su una soggettività, per quanto marginale, identica a se stessa.
Quello che in questo modo si delinea nell’opera di Alberto, ancora prima di essere teorizzata in Infrapolitica, è la rottura tra politica e soggettività, una sorta di ‘politica senza soggetto’, come geli stesso la definisce. Da questo punto di vista Moreiras prende le distanze da tutti i discorsi sulla soggettivazione aperti da Foucault e adottati da vari fronti teorico-politici, per esempio da buona parte del pensiero femminista. Ma si distanzia anche da alcune prospettive post-lacaniane come quelle da un lato di Laclau e dall’altro di Badiou. Per non parlare della biopolitica di Negri e dalla sua idea di moltitudine come soggetto collettivo, lontanissima dall’infrapolitica di Alberto.
Se identifichiamo, come molti fanno, in Schmitt, Arendt e Foucault i maggiori filosofi politici novecenteschi, si vede come la posizione assunta da Alberto resti lontana da ciascuno di loro. Se di Schmitt rifiuta la dicotomia amico/nemico come categoria fondativa del politico, è parimenti distante da una filosofia della polis come è pensata da Hannah Arendt, così come dalla biopolitica foucaultiana, sia nel suo versante negativo e tanatopolitico che in quello affermativo e vitalistico.
A quale orizzonte concettuale è allora riconducibile l’ontologia non-soggettiva e non-rappresentativa di Alberto? Quale filone filosofico ispira il suo pensiero? Certamente non quello hegeliano, di cui rifiuta sostanzialismo e fondazionalismo – il ‘negativo’ cui pensa Moreiras è, infatti, ben diverso dal negativo hegeliano o kojèviano. Ma certamente è lontano anche dal modello nietzscheano, che pone nella volontà di potenza la punta estrema del vitalismo, se non anche del biologismo, moderno.
Se dovessi inserire il suo discorso all’interno di un’orbita filosofica novecentesca, penserei a quella heideggeriana, naturalmente con tutti distinguo del caso. All’orizzonte heideggeriano Alberto è vicino in particolare in relazione alla semantica dell’ ‘esistenza’, contrapposta a quella della ‘vita’ – in cui Moreiras prosegue la polemica di Heidegger contro il vitalismo, considerato da lui metafisico, di Nietzsche.
Ma si avvicina a Heidegger anche quanto all’antifondazionalismo, vale a dire alla distruzione, o decostruzione, di ogni essenza soggettiva o oggettiva. Non per nulla i due autori contemporanei cui Moreiras appare più contiguo, e ai quali spesso si richiama, sono entrambi situati nel solco di Heidegger: vale a dire Derrida e Nancy, del quale ultimo Moreiras richiama la ‘decisione di esistenza’ intesa come decisione senza sovranità e senza soggettività – a meno che per ‘sovranità’ non s’intenda quella, estatica e autodissolutiva, di cui parla Georges Bataille.
Benché sostenga che la ‘differenza ontologica’ vada ripensata, Moreiras si richiama all’eccedenza heideggeriana dell’esistenza, intesa come auto-trascendimento del soggetto che arriva a disperdere ogni traccia di soggettività. Anche il rifiuto dell’arché – vale a dire della sovrapposizione tra principio e comando su cui poggia l’ideologia occidentale – contiene un implicito rimando al pensiero di Heidegger, soprattutto nell’interpretazione ‘anarchica’ che ne ha dato Reiner Schürmann.
Ma per inquadrare il lavoro di Moreiras, è opportuno ritornare alla svolta nel pensiero sulla politica attivata quasi contemporaneamente in Francia e in Italia tra gli anni Ottanta e Novanta. Si potrebbe dire che la filosofia italiana, dopo aver sperimentato in tutte le loro tonalità le ‘trasformazioni del politico’ – adopero il titolo di un libro importante di Giacomo Marramao, che sembra fare da spartiacque tra le due stagioni – sposti lo sguardo al confine esterno della politica o anche al limite che la taglia dall’interno.
‘Impolitico’, ‘infrapolitica’, ma anche ‘metapolitica’ – nell’interpretazione diversa che di questo ultimo termine hanno dato Manfred Riedel, Giacomo Marramao e Jacques Rancière – sono tutti modi di nominare questo spostamento dall’interno ai confini del politico – a ciò che allo stesso tempo lo precede e lo eccede. Non al fondamento del politico, dal momento che esso non è fondato da nulla, ma al suo presupposto, appunto impolitico, infrapolitico o metapolitico.
Circa negli stessi anni proprio Jean-Luc Nancy e Philippe Lacoue Labarthe aprivano a Strasburgo un Centro di riflessione sul politico, orientato al suo ‘retrait’ – vale a dire insieme al suo ritiro e al suo ri-tratto, o ri-tracciamento, in una sovrapposizione, di derivazione derridiana, tra traccia e differenza.
Allo stesso tempo in Italia Massimo Cacciari cominciava a teorizzare l’impolitico in una modalità diversa e anche opposta al modo in cui Thomas Mann adoperava il termine – vale a dire non come opposizione di un valore alla politica, ma come critica di ogni valorizzazione indebita della politica.
È in questo orizzonte radicalmente post-schmittiano che va collocato il lavoro di Moreiras – certamente il più interessante all’interno dell’area latino-americana. Quando egli scrive nel libro che stasera presentiamo che l’infrapolitica è la differenza assoluta tra vita e politica, essere e pensiero – senza però che la vita corrisponda all’essere né, tantomeno, che la politica corrisponda al pensiero – assume una posizione estremamente radicale. L’aggettivo che adopera – ‘assoluta’ – vuol dire che tale differenza non può essere relativizzata, ridotta, ridimensionata, ma appunto assunta in tutta la sua radicalità.
Rispetto a quanto sostiene il compianto Jean-Luc Nancy – secondo il quale non tutto è politica, la politica non è tutto – la tesi di Moreiras appare ancora più estrema. Affermare che politica e vita sono tanto diversi da porsi ai poli opposti della prassi e del pensiero, situa la sua prospettiva fuori non solo dalla sinistra filosofico-politica, rappresentata per esempio da Balibar – dalla sua idea che uomo e cittadino vadano sempre più integrati tra loro –, ma anche da tutta la riflessione biopolitica originata dai testi di Foucault degli anni Settanta e ripresa in Italia nei decenni successivi.
E infatti il libro di Alberto contiene una polemica, ben argomentata, contro tutte le declinazioni che il lemma di ‘biopolitica’ ha assunto nell’ultimo ventennio soprattutto in Francia e in Italia, ma anche nelle Americhe. Rispetto a questa posizione critica di Alberto ho diversi punti di accordo, ma anche qualche disaccordo. Ciò su cui certamente concordo è la netta distinzione dell’infrapolitica, come anche dell’impolitico, da ogni forma di spoliticizzazione o di antipolitica.
È evidente che la riflessione infrapolitica nasce non da un disinteresse, ma da un profondo interesse – starei per dire da una ‘passione’ – per lapolitica. Semmai essa manifesta una richiesta di politica talmente radicale da rovesciarsi nel suo contrario, vale a dire in un arretramento da una prassi politica intrinsecamente nichilistica che tradisce l’anima stessa del politico.
La polemica con il modello rappresentativo – inteso da Carl Schmitt come relazione tra politica e idea – lega fortemente l’infrapolitica all’impolitico teorizzato in Italia negli anni Novanta. In entrambi i casi – nell’infrapolitica come nell’impolitico – ciò che viene escluso è ogni relazione teologico-politica tra bene e potere, l’idea dialettica che si possa ricavare dal male un bene.
Al fondo del discorso di Moreiras resta un presupposto heideggeriano, cioè l’idea che l’essenza della polis non sia politica, come Heidegger sostiene soprattutto nei corsi fra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta. Alberto si pone appunto nello spazio di questo ‘non’, di questo ‘non politico’, assumendo il negativo non in senso dialettico, ma nel senso della differenza assoluta, della pura differenza. Non solo della différence, ma della différance, come avrebbe detto Derrida.
L’altro punto su cui concordo con la tesi di Alberto è la critica ad un eccesso di vitalismo, presente in alcune interpretazioni della biopolitica contemporanea. Condivido con lui la convinzione che una nozione di vita assolutizzata contenga in sé una pulsione di morte. In Al di là del principio di piacere Freud lo ha spiegato assai bene – al fondo dell’espansione vitale vi è il richiamo della morte. Le guardie della vita sono anche le sentinelle della morte. E d’altra parte non portava in sé una terribile potenza tanatopolitica, una pulsione di morte, l’esaltazione della vita, intesa in termini biologico-razziali, del nazismo.
Personalmente penso che anche l’idea di ‘nuda vita’ – se sottratta all’orizzonte benjaminiano in cui il termine blosse Leben viene inizialmente usato – si presti a un simile scivolamento, anche quando è adoperato in forma passiva, come oggetto di esclusione o distruzione da parte del potere. Personalmente penso che la vita non sia mai nuda, sia sempre caratterizzata da una forma, sia sempre una forma di vita, anche nelle condizioni più infelici che si possano immaginare.
Ciò che, però, osserverei criticamente rispetto alla prospettiva di Alberto è che il modo per liberare la vita dalla sua assolutezza – dal piano d’immanenza, come lo intende Deleuze – sia proprio quello di storicizzarla, di conferirle una forma e dunque in qualche modo di metterla in rapporto con la politica. Se la vita è radicalmente separata dalla forma politica, secondo la differenza assoluta tra vita e politica teorizzata da Alberto, rischia di ricadete proprio in quell’assolutezza che la condanna all’immanenza assoluta. Una vita del tutto de-istituzionalizzata, de-formata, de-politicizzata rischia di scivolare nell’eccesso di vitalismo da cui Alberto vuol tenersi lontano.
Anche perché una vita completamente destoricizzata e depoliticizzata sarebbe una vita ‘immaginaria’, anche nel senso lacaniano dell’espressione – vale a dire priva della barratura simbolico che la taglia. Quando parlo di una vita formata, istituzionalizzata, intendo conferire alla vita la dimensione simbolica di cui l’assoluta separazione di cui parla Alberto dalla politica la priverebbe, rischiando di spingerla ‘al di là del principio di piacere’, cioè nella pulsione di morte.
Il secondo punto su cui non mi ritrovo tanto con il discorso di Alberto mi riguarda più direttamente: si tratta dell’interpretazione della communitas di cui parlo in termini di comunitarismo. In realtà con il concetto di communitas non mi riferivo assolutamente ad una comunità particolare, piena di sostanza o di valore, coincidente con la stretta cerchia dei suoi membri, secondo il modello comunitarista, ma, al contrario, a una comunità vuota, e dunque universale, coincidente con la dimensione aperta ed esposta dell’esistenza umana.
Nello sviluppo del mio lavoro la communitas sta nella dimensione dell’impolitico, e dunque della decostruzione, ha poco a che vedere con la semantica biopolitica, intervenuta successivamente. Diversamente da questa, che nasce da Foucault, trova una forte ascendenza proprio nel pensiero di Heidegger, almeno di un certo Heidegger, e di Derrida e dunque non è lontana dalla posizione di Alberto.
Successivamente ho modificato parzialmente la mia posizione, ma non è questa l’occasione per parlarne. Al centro del nostro colloquio deve restare la prospettiva di Alberto, che, nella sua ricchezza e nella sua radicalità, mi pare costituire un polo importante della discussione filosofica contemporanea. Anzi la sua posizione, al centro del dibattito latino-americano, ne fa un riferimento di estremo interesse per il pensiero italiano – ammesso, e non concesso, che dopo gli eventi di questi ultimi anni si possa ancora parlare di un pensiero italiano come qualcosa di omogeneo.
Ma non è il caso di addentrarsi in questo discorso. Quanto alle critiche che Alberto rivolge al mio libro ‘Da Fuori. Una filosofia per l’Europa’, in parte concordo. Nel libro ci sono degli elementi schematici nella definizione dei tre ambiti della filosofia tedesca, francese e italiana, che oggi avrei evitato, mettendo più in luce gli intrecci che opposizione. Ma anche questo ci porterebbe troppo lontano.
Quello che conta è il rapporto, come dicevo all’inizio, di confronto filosofico e di amicizia personale che lega Alberto con alcuni di noi – Giacomo, Sandro Luce, Davide Tarizzo e altri. Spero che questo incontro serva a riaprire, o potenziare, una comunicazione tra lui e tutti noi, di cui abbiamo davvero bisogno. Da questo punto di vista non posso che ringraziarlo per l’attenzione e la generosità con cui ha seguito il mio lavoro e, più in generale, per un impegno filosofico di grande rilievo.